Storie a Strisce – Il Rabdomante, la Primavera, l’Alberuomo e Giulietta

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Storie a strisce”: o del “Canto per identità mutanti”

“Io volevo che la vita si espandesse dal centro della terra, si propagasse alle sfere concentriche che la compongono, circolasse tra i metalli fluidi e compatti. Questo era il sogno di Plutone. Solo così sarebbe diventata un enorme organismo vivente, la Terra, solo così si sarebbe evitata quella condizione di precario esilio cui la vita ha dovuto ridursi”. (Italo Calvino, L’altra Euridice, Il cielo di pietra, in La memoria del mondo ed altre cosmicomiche, 1975).

…”Ma per Euridice, attratta come sempre dal raro e dall’inconsulto,…c’era l’impazienza di appropriarsi di qualcosa d’unico, buono o cattivo che fosse…” (cit.). Può partire da qui, da questa calviniana identità capovolta, assunta quale identità speculare e mutante dell’artista, l’immersione nella dimensione polimorfa del racconto fantastico di visionari enigmi e di sogni desideranti evocata per immagini, parole e suoni nelle “Storie a strisce” di Claudia Bellocchi, di cui la sequenza messa in scena e attuata nelle modalità dell’arte di strada, con le figure simboliche de “Il Rabdomante, la Primavera, l’Alberuomo e Giulietta” e di “Jonas il menestrello”, costituisce l’incipit.

Dissimulata la propria identità sotto l’apparente leggerezza dei cantafavole, Claudia Bellocchi  – alla maniera onirica del Sogno di una notte di mezz’estate, o assimilando la lezione della trasfigurazione visionaria nel fantastico di Julio Cortazar attiva un meccanismo in cui la ricerca dell’identità desiderata – e di un’identità sempre diversa da quella avuta in sorte, per destino o appartenenza, biologico o sociale – costituisce la sostanza della narrazione di ogni vita di donne e uomini o anche di favolistici animali.

E, come in ogni narrazione, la cui essenza sia, fondamentalmente, una figurale quête, quello che viene agito è un oscuro ma al tempo stesso impaziente sentimento di inadeguatezza, di manchevolezza del sé a sé, in quel precario esilio che sospinge al viaggio e alla prova, per attingere ciascuno, il proprio raro e unico “objet”: la consapevolezza dell’identità latente ed inconsapevole.

Muovendo tra Calvino e Chagall, il personale viaggio dell’artista Claudia Bellocchi dentro la ricerca dell’identità ha l’incipit in Argentina – rivelazione a sé della natura libera ed autentica dell’interiore inquietudine espressiva e poi fondamento del composito universo narrativo e visivoe nella scoperta della temperie artistica della Nueva Figuraciòn dei pittori del BarbarO, Noé, Deira, Macciò, De la Vega, di cui l’artista stessa scrive (2010) che “mi diedero il coraggio di essere quale sono”, in quanto “tutto si muove attraverso uno strano sincronismo che, se sappiamo riconoscere, ci dà una sicurezza nell’incertezza totale della vita”, da cui procede il filo di una ricerca che l’ha portata ad una visione olistica della realtà e dell’animo umano e ad un percorso espressivo – tra immagine e scrittura – sintesi della dimensione reale e di quella metafisica.

In questo senso, è nel divertissement Barrišnikov e il Cabaret Léger”, sorta di avanguardistico fabliau alla Jarry – che prosegue le narrazioni delle “Storie a strisce” –  la più esplicita dichiarazione di poetica di Claudia Bellocchi: “trattare attraverso l’Arte dello spettacolo cose importanti, ma con leggerezza. ….dimostrare che si possono affrontare grandi argomenti con un’armoniosa leggerezza”. 

 Anna Cochetti

  in mostre:

Nel rutilar di colori, sonar di piatti, cipria e sorrisi, scorre la favola di strada che tende il filo d’una allegria stridente dietro cui s’ammanta travestito da irridente clown il buio e la pena di tutti noi, poveri Pollicini sperduti nel bosco oscuro e crudele.
Perché crudele è sempre la favola, da la Fontaine a Perrault, storie terribili fatte per terrorizzare bimbi impauriti.
Ma le favole son per noi, uomini e donne che traversammo la vita, e ci perdemmo, per noi smarriti che ridiamo incantati alle trombette e alle maschere degli artisti girovaghi, e pur dietro il riso ci scuote il brivido d’un buio Caos, il nero mantello dell’Orco e della Strega. Ai bimbi stupiti diamo lo zucchero filato e la mano che stringe rassicurante la loro piccola paura che crede ancora nei miracoli e negli scoiattoli parlanti. Per noi, intrappolati nel luna—park dei ciuchini piangenti, resta la scappatoia del festoso inganno, del complice ammiccare del saltimbanco mentre ridendo ci trasporta in bilico sul filo dell’Abisso: “…È un gioco di prestigio il trapassare che non fallisce mai!..”— Così Claudia Bellocchi, maestra di giochi e di tranelli, ci illustra la favola,: “…Siore e siori!!.” le Storie a strisce dei curiosi personaggi che buffi straparlano di oscuri enigmi, e ci inseguono per strada, dove ancora rimbomba da lontano il loro tamburo come inquietante rintocco. Lasciateci dunque svegliare dai cattivi sogni… O è nel giorno che ci aspetta l’illusione del vero sogno?

 

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Video promo della performance

 

Il Rabdomante, la Primavera, l’Alberuomo e Giulietta.

Storie a Strisce, nastri colorati che inseguono i raggi di luna piena, ornamento della vita. Racconti, piccoli lucernai di voci sottili che intonano rondeau, dove cantori girovaghi rubano inconsapevoli scintille come lucciole. Saltimbanchi di notti buie dove l’occhio addormentato ride a ciò che pensa di vedere: un semplice giullare, un burlone che stilla oro e argento dai campi dove l’aria è pregna, ed effimera, dialoga col cielo.

Il Rabdomante, la Primavera, l’Alberuomo e Giulietta - olio su carta fodera - cm 56 x 231

Il Rabdomante, la Primavera, l’Alberuomo e Giulietta – olio su carta fodera – cm 56 x 231

«Orsù» pronunciò il Rabdomante nel tentativo di pescare. Come far emergere dall’acqua i pesci del fiume incantato? Che in fondo, sì era incantato, ma non sembrava neppure un fiume, un rivolo, un mare… no non si sa! Era certo che conteneva pesci, perché solo al suo «orsù», cominciarono a guizzare sbucando fuori uno dietro all’altro come se, tra loro, si volessero mangiare.

Il Rabdomante si sentì molto felice, anche se non proprio a suo agio in quegli abiti.

Alla sua nascita fu tessuto un ordito fatato, per ricordargli costantemente il suo destino da guerriero. Si divertiva, sì, nelle giostre a far finta di infilzare, ma quest’armatura che lo accompagnava proprio, non gli andava.

Riuscì dunque a togliersi una per una le piastre metalliche, ma si accorse che senza di esse, sebbene più leggero era tanto, tanto fragile. Alla fine optò per tenersi elmo e maglia ma al posto delle scarpe d’armi, alti stivali che se non eran del Gatto, certo potevano somigliare a quelli di un pescatore.

Il Rabdomante non fece caso al mistero del fiume.

Pur non essendo un vero corso d’acqua, presentava gorghi sospetti e ripiegature di quella strana coperta d’erba, nella quale si avvolgeva la Primavera in languida attesa della sua completa metamorfosi. E’ risaputo, infatti, che la Primavera non era altro che la Grande Sirena di tutte le acque, che per udir polmoni umani e non branchie, aveva rinunciato al canto per le danze e dunque aspettava che gli crescessero le gambe.

Mentre gioconda giaceva mutante, ricoperta d’erba e d’alghe, l’assalivano pensieri nel parossismo della trasformazione: «Come dar voce alla melodia dentro di me se ho rinunciato al canto? Chi m’ama, inebriato da saggio nettare, intonerà odi, e prodigo ogni anno celebrerà la scelta d’amore».

La Primavera non si era accorta di attirare l’attenzione dell’Alberuomo dalle profonde radici ma dalle rare appendici, che sembravano legnosamente piccole braccia o meglio alette di pollo. Forte e nodoso sopra ogni cosa desiderava volare, ma per quell’ossimoro radici-ali il Consiglio delle Scienze già si era pronunciato: nulla da fare!

La Primavera intenerita dal profondo desiderio  dell’Alberuomo suggerì di ricorrere alla scienza  del dottor Faustroll: la Patafisica.

D’incanto l’Alberuomo si accorse che quelle appendici se non per volare eran ottimo rifugio per sospironi, fiori dai mille colori i cui semi simili soffioni, però tutti luminosi, volitavano sorridendo. Mossi non da alito di vento, né da soffio umano si libravano quando la speranza era così forte che il desiderio si sarebbe realizzato.

Voi direte: «Ma quando?» Come si vede che non avete studiato! Già dalle elementari si riconoscono i tempi, che non sono quelli dati da Cronos o misurati da Planck, il Tempo è quell’attimo che si esprime in un desiderio, così, ad occhi chiusi e schioccando le dita. Proprio allora i semi di sospirone, illuminando come lucciole, notti buie e viaggiando con il loro sorriso per il mondo, avrebbero toccato le corde della vita per realizzare il sogno desiderato!

Di questo era ben conscia Giulietta anche quando la mamma si confondeva: «Povera mamma!». La mamma, come dire straparlava di cose senza senso o almeno che Giulietta proprio non riusciva a comprendere. Quando dispiaciuta si tappava le orecchie, più forte la mamma continuava ancora più confusa che non riconosceva neppure lei, Giulietta. Cosicché quando le sue mani tese non trovavano risposta, Giulietta le richiudeva, e poi lentamente pensava ai sospironi e con gli occhi chiusi, schioccando le dita, già sapeva che la storia che avrebbe raccontato, proprio tutti l’avrebbero capita. Fine.

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Foto della performance di Arte di strada
interpretata da Clea Scala
accompagnata dalla fisarmonica di Ascenzo Asseri

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